
C’è differenza. Questa la risposta che è anche il titolo del libro di Graziella Priulla, insegnante di sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Catania. C’è differenza perché vince troppo spesso la disattenzione al linguaggio, che dovrebbe tener conto del genere e contribuire a costruire una identità positiva e invece no. C’è differenza perché permangono tanti stereotipi che nel libro “C’è differenza. Identità di genere e linguaggi: storie, corpi, immagini e parole” sono descritti al fine di favorire una riflessione.
C’è differenza perché c’è bisogno di “educazione alla formazione di linguaggi e orientamenti che, senza negare le differenze biologiche, le privino della carica di violenza, delle ambiguità e delle mistificazioni che storicamente hanno accompagnato le relazioni tra i sessi”.
Quale la situazione nel nostro Paese rispetto all’attenzione per temi come quello della parità di genere?
C’è qualcosa che non va nel sistema educativo, se i pregiudizi sessisti sono così radicati nel linguaggio comune e nelle relazioni quotidiane tra donne e uomini. Se io per il mio essere donna rischio ogni volta che esco la sera, che viaggio da sola, che corro in un parco… e perfino se oso lasciare il mio partner.
C’è qualcosa di profondamente irrisolto nel rapporto del genere maschile con se stesso e con le donne, se le reazioni alla libertà femminile sono talmente cruente da arrivare addirittura all’assassinio.
C’è qualcosa che non va nel sistema dell’informazione e nei social, se la denigrazione delle donne è ancora così pervasiva (gli insulti sono all’ordine del giorno) e se ad ogni caso di violenza molti continuano a scrivere che la vittima “se l’è cercata”.
C’è qualcosa che non va nelle famiglie, se continuano a riprodurre un’asimmmetrica divisione dei ruoli e dei destini tra i generi. Se parlare di sessualità con i propri figli e le proprie figlie è ritenuto da molti genitori, anziché un discorso di gioia, un fatto imbarazzante.
C’è qualcosa che non va nel mondo istituzionale, se consideriamo la scarsa presenza di donne nei luoghi della rappresentanza e della decisione e nei ruoli di leadership. Secondo il Global Gender Gap Report del 2016, nel ranking complessivo l’Italia si colloca al 50° posto su 144 Paesi.
C’è qualcosa che non va nel mercato del lavoro, se permangono le disparità nelle retribuzioni, nelle carriere e nelle pensioni, il soffitto di cristallo, la doppia presenza, la maggiore disoccupazione femminile. Con un tasso di attività femminile fermo al 49% l’Italia si colloca all’ultimo posto nella graduatoria dei Paesi europei.
Quanto il non avere una ministra che si occupi di questo ha influito e in che modo?
C’è ministra e ministra. Averne una qualsiasi non cambia niente, averne una preparata e sensibile cambierebbe molto. Non per ottenere leggi più repressive, ma per attuare serie politiche di prevenzione. Basterebbe attuare la Convenzione di Istanbul, a suo tempo sottoscritta anche dall’Italia.
A un certo punto del libro si parla di “auto-oggettivazione”: come limitarla alla luce anche dell’uso che le ragazze fanno dei social network?
L’auto-oggettivazione è il processo mediante il quale le ragazze imparano a pensare a se stesse come a oggetti del desiderio altrui, autosvalutandosi al ruolo di comparse in un copione in cui altri sono eroi e in cui è lo sguardo degli altri a costruire la propria identità.
Una conseguenza visibile è la preoccupazione maniacale del proprio aspetto fisico, indotta da un mercato che ha trovato in questa paranoia una fonte inesauribile di profitto (l’industria della bellezza non conosce crisi). L’auto-oggettivazione e il correlato monitoraggio ossessivo del proprio corpo hanno molte conseguenze negative, tra cui minore autostima, disturbi alimentari, umore depresso, peggior funzione sessuale, peggiori prestazioni cognitive.
Cominciano fin da piccole, fin da un’infanzia coltivata davanti a uno specchio e nei luoghi dello shopping. Continuano per tutta la vita, nell’ansia di sembrar adulte quando sono bambine e di sembrar giovani quando sono anziane.
I mass media sono determinanti, ma anche la famiglia potrebbe e dovrebbe fare la sua parte.
Gli stereotipi: quanto influiscono sulla disparità? Come si superano?
Gli stereotipi non sono un’immagine del mondo, ma l’immagine di un mondo possibile cui ci siamo adattati senza nemmeno accorgercene. In questo mondo, le persone e le cose non solo hanno un posto preciso, ma si devono comportare secondo previsioni che confermino la nostra visione.
Lì ci sentiamo a nostro agio: vi siamo inseriti, ne siamo membri e sappiamo quindi come muoverci. Vi troviamo il fascino del familiare, del normale, del sicuro. È lo stesso motivo per cui ciò che è diverso da noi ci fa paura.
Quando gli stereotipi diventano uno dei principali filtri con cui si guarda alla realtà imbrigliano le persone in etichette e consuetudini da cui è difficile svincolarsi. Esse condizionano il ruolo che si assume nelle relazioni e in famiglia, la strada formativa o professionale che si decide di intraprendere, la scelta del/della partner, l’educazione di figli e figlie e molti altri aspetti della vita.
Quando facciamo un esame critico degli stereotipi relativi al genere – determinanti nell’esistenza degli uomini e delle donne – non stiamo proponendo nuove regole (sarebbe un’inutile presunzione): cerchiamo soltanto di rendere percettibili le regole invisibili che condizionano ognuno/a di noi, e di domandarci se davvero ci rendono felici oppure se si potrebbero cambiare.
Prima di liberarsi di uno stereotipo bisogna accorgersi della sua esistenza.
Il primo passo è riconoscere il sessismo che è in noi, nelle nostre parole, nelle nostre abitudini, nei nostri concetti, perfino nei nostri silenzi.
Per questo credo che l’educazione sia fondamentale, anche per stimolare il senso critico e l’autoanalisi. La famiglia lo fa poco e male, dovrebbe occuparsene almeno la scuola.
Poiché la cosa che so fare meglio, il mio mestiere, è usare le parole, ho appena scritto in proposito un libro intitolato Viaggio nel paese degli stereotipi, edito da Villaggio Maori, in uscita questo mese.
Cosa significa “le donne fanno gruppo, gli uomini fanno squadra”?
Che gli uomini di regola solidarizzano tra loro molto di più di quanto non facciano le donne. Questo ha una ragione storica. Mentre gli uomini sono stati addestrati da secoli (la guerra, i giochi, lo sport) a fare squadra, le donne hanno dovuto imparare a mettersi in competizione tra loro per ottenere gli sguardi e l’attenzione altrui, per contendersi la protezione di un maschio, che in passato era necessaria per sopravvivere.
Se si parte dal presupposto che una donna definisca se stessa solo in rapporto agli uomini, è evidente che con le sue simili potrà sviluppare solo rapporti di rivalità. E’ fin troppo conseguente come questo ci impedisca di svolgere un ruolo politico e di condurre battaglie comuni.
Purtroppo gli stereotipi, senza volerlo a volte, sono nell’aria sin da quando siamo piccoli. I colori per definire un genere o il sesso di un nascituro, l’uomo che puo’ acquistare e andare in moto, l’uomo che non puo’ truccarsi o vestirsi di lilla o di rosa… e potrei menzionare altri mille luoghi comuni che sono radicati nella nostra quodinianita’ sin da; giorno uno. Non dico che questo sia il motivo per cui avviene sempre una certa distinzione fra sessi.. ma tutto cio’ non aiuto piuttosto alimenta un fare, un modo di porsi imposto dalla societa’ in cui si vive. Lavorando nell’informatica ed essendo una WOMAN in TECH mi ritrovo ogni giorno ad affrontare sguardi, modalita’ di pensiero, atteggiamenti per nulla normali basati su concezioni o pensieri radicati difficili da sanare. Per arrivare al punto in cui siamo oggi, noi donne ci abbiamo messo “secoli” ma di strada da fare ce n’e’ sempre troppa. Disparita’ salariale, disparita’ di mansioni lavorative, e potrei continuare per ore… esistono soluzioni? che io sappia no :/