

Big Data – Fuente: Asigra. Foto di BBVAtech
Il 2013 è l’anno internazionale della statistica. E la statistica, tradizionalmente, si occupa di dati. Sostenere che oggi si stia verificando una vera e propria esplosione di dati sembra un’affermazione ormai ovvia: big data, analytics, banche dati di dimensioni enormi hanno creato una straordinaria deflagrazione informativa. Il concetto di big data richiama a grandi aggregazioni di dati, la cui ampiezza e complessità richiede strumenti più avanzati rispetto a quelli tradizionali e una nuova generazione di tecnologie e architetture con la possibilità di fare dialogare tra loro anche fonti differenti.
Il 6 maggio 1840 le poste inglesi emisero il primo francobollo del mondo; oggi la posta cartacea non esiste quasi più sostituita dalle nuove forme di comunicazione, veloci, immediate, condivise. Ma qual è la natura dei dati che orbitano intorno a noi? Sono tutti utili, utilizzabili, leggibili, verificabili, validi e attendibili? A volte sì, a volte meno, a volte per niente. Il problema di oggi non è la carenza di informazioni, ma la possibilità di orientarsi tra le varie fonti informative, di selezionarle e in tempo rapido. Non è, infatti, un automatismo estrarre conoscenza dai dati. Le possibilità di elaborazione si sono amplificate in pochissimo tempo e spesso le persone, così come le piccole aziende, non hanno a disposizione risorse dedicate per la quantità di dati che devono gestire.
In più, se da una parte cresce la quota di persone che “abitano” il web, dall’altra permane una percentuale di popolazione che ne è esclusa o per scarsa alfabetizzazione o per problemi infrastrutturali. Secondo i più recenti dati Audiweb Trends, sono 14,5 milioni le famiglie italiane che dichiarano di avere accesso a internet da casa attraverso computer, televisore o altri device; il 67,4% delle famiglie con almeno un componente fino a 74 anni per un totale di 38,4 milioni di italiani, pari al 79,6% degli individui tra 11 e 74 anni, con una concentrazione quasi totale tra i giovani (oltre il 92% degli individui di età compresa tra gli 11 e 34 anni).
Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare; in Italia il web non sembra ancora essere sufficientemente sviluppato. Infatti, la potenzialità del web non si può misurare solo in possibilità di accesso, ma anche di quantità di attività che attraverso il web si possono o non possono fare. Secondo il Web Index, elaborato dalla World Wide Web Foundation, l’Italia si posiziona al ventitreesimo posto per livello di sviluppo del web, rispetto al quattordicesimo posto della Francia, al sedicesimo della Germania e al diciottesimo della Spagna.
Il Web Index, un indice multidimensionale che ordina 61 Paesi rispetto al grado di utilizzo, utilità e impatto del web sui cittadini, si basa su una serie di indicatori che valutano gli aspetti economici, sociali e infrastrutturali. Ed è proprio sul social impact che l’Italia scivola più in basso, al trentatreesimo posto con uno score pari al 53.1. Il social impact misura, tra le altre cose, la diffusione dei social network, l’utilizzo del web per quanto riguarda l’accesso dei cittadini ai servizi di base (sanità, istruzione, servizi finanziari, apprendimento a distanza, ecc.) e l’uso proattivo da parte delle organizzazioni pubbliche per la comunicazione o prevenzione di fenomeni rilevanti (epidemie, malattie, calamità, ecc.).
Come dire: web sì, ma ancora troppo con moderazione!