
Svuotare gli zaini per riempire le menti di contenuti si può. Questo il messaggio contenuto nel libro Testi scolastici 2.0 (40K Unoficcial edizioni, costo 0,99 in ebook) scritto da Emanuela Zibordi, insegnante con atavica passione per le nuove tecnologie. Troppo spesso gli zaini degli studenti grandi e piccini si riempiono di libri che giacciono inesplorati, magari superati dal tempo o dal programma, e che possono essere arricchiti solo grazie agli appunti presi a lezione integrati con altri testi magari cercati su Internet. E da questo concetto del libro fatto come un patchwork nasce il libro della Zibordi che, passo passo, dà le indicazioni utili alla realizzazione di un testo scolastico in classe. Semplici e a zero spese sono gli strumenti proposti: un account Google per la condivisione del lavoro in classe su Drive, Writer di OpenOffice o LibreOffice per l’editing dei testi, Writer2ePub per la trasformazione del testo in formato ePub, Sigil per rifare il trucco all’ebook prima della pubblicazione e Calibre per la conversione in formato leggibile da supporti Kindle. Oltre alle indicazioni di how-to, le pagine si soffermano sulle indispensabili modalità di organizzazione del lavoro in classe e sulle metodologie migliori per coinvolgere i ragazzi nella composizione del proprio libro di testo. Abbiamo chiesto all’autrice di parlarci delle opportunità, non prive di ostacoli, di una scuola più digitale.
D’istinto, leggendo il libro, il realizzare un testo scolastico in classe appare davvero semplice. Quali buoni esempi sono stati realizzati (da te o da tuoi colleghi)?
Distinguerei l’attributo semplice. Una prima problematica riguarda l’utilizzo degli applicativi che consiglio effettivamente consentono un approccio non “specialistico” e sono abbordabili anche da coloro che non hanno una formazione da programmatori. L’altra corrisponde all’aver ben chiaro il processo didattico ed organizzativo che comprende modalità di coinvolgimento degli studenti alla scrittura cooperativa al fine di renderli partecipi di un progetto che ha come obiettivo la creazione di un prodotto finale. E’ questo l’aspetto meno “semplice”, cioè far attecchire una didattica connettiva che metta in interazione gli studenti tra loro e con la Rete per riuscire a studiare in modo diverso. Come sempre l’introduzione di una tecnologia nella scuola non è un problema meramente tecnico, ma didattico e metodologico. Nell’istituto dove insegno un primo tentativo di scrittura risale ad un paio d’anni fa con una classe liceale per l’ebook di filosofia. Era mancata allora, un po’ per fretta ed un po’ per inesperienza, l’organizzazione strutturale e la distribuzione equa delle mansioni tra gli studenti, così alla fine, l’ebook è stato compilato solo da alcuni volenterosi. I file per il download si trovano sulla piattaforma moodle ma sono ebook naif, un primo esperimento. Quest’anno scolastico, invece, siamo già partiti con alcune classi a costruire ebook in diverse discipline. Queste esperienze sono ancora work in progress.
Qual è l’ostacolo maggiore che secondo te si può trovare nel voler “adottare” un testo scolastico 2.0?
I testi scolastici editi dalle case editrici hanno indotto a pensare che i docenti non siano responsabili dei contenuti e delle metodologie che propongono mentre tantissimi sono abituati a cercare risorse su altri testi costruendo da sé i materiali didattici e condividendoli su Internet. Gli insegnanti devono prendere consapevolezza di questo cambiamento che è già in atto da tempo e abbandonare progressivamente un testo che non corrisponde al percorso che hanno in programma. Quando parliamo di testi, implicitamente ci riferiamo ai contenuti che sono comunque strumenti formativi e non le finalità ultime della nostra scuola.
Oltre agli strumenti già descritti nel libro, quali altri ritieni siano utili per lavorare con una classe digitale?
Una scuola 2.0 dovrebbe essere concepita come tale già dalla struttura architettonica. Non hanno più senso, ad esempio, le aule chiuse. I vecchi banchi andrebbero sostituiti da arredi che permettano il dialogo e lo scambio di informazioni tra soggetti e gruppi anche di età diverse. Le infrastrutture, come una copertura wifi diffusa e funzionante, sono fondamentali affinché ciascuno studente con il proprio dispositivo, netbook o tablet, sia libero di navigare in Internet. A questo proposito c’è una paura eccessiva della rete: gli studenti, almeno quelli delle superiori, sono normalmente attenti alla privacy, sanno come muoversi e se entrano in Facebook non è la fine del mondo, anzi, questi non capiscono il senso del divieto di accesso a scuola. Certo che la didattica deve essere operativa e non passiva: farli lavorare sulla lettura, la scrittura, le simulazioni, audio, video, stimolare l’aiuto reciproco, creare insieme risorse originali, discuterne con coinvolgimento soggettivo. Per ultimo direi che sia fondamentale da parte del docente conoscere bene la Rete ed i suoi strumenti, sia formali che informali, per adottare quelli più funzionali agli obiettivi da raggiungere. Dovrebbero essere riviste anche le modalità di attribuzione dei voti ed i criteri valutativi, non più per conoscenze ma per competenze. Utopia? Adesso ci si arrangia come si può con le strutture, i mezzi e le risorse che si hanno a disposizione che sono in genere inferiori alle possibilità che uno studente si ritrova a casa propria, almeno per la maggior parte di essi.
“Un docente isolato non può avere un impatto sul sistema” afferma Donatella Nucci, capo dell’Unità nazionale della rete di eTwinning. Ti sei mai sentita “isolata”? Come pensi si possano sostenere i docenti nel fare rete?
Sono d’accordo con Donatella che sia necessario insistere nel coinvolgere più insegnanti possibili. Questo non è sempre facile perché ci sono molte resistenze, sia in ordine alla necessità, sia alle abilità tecniche. Il nostro Paese ha una rete di insegnanti nei vari ordini di scuola che si danno molto da fare a fronte di una massa più consistente che non è ancora pronta al cambiamento e forse non lo sarà mai. Con questo non voglio dire che non siano bravi insegnanti, ma con l’uso della tecnologia avrebbero, a mio avviso, una marcia in più. Nel mio caso non parlerei di vero e proprio isolamento. L’importante è avere qualche collega e soprattutto il dirigente che creda nella possibilità di innovazione, che significa abbandonare progressivamente la tradizione per qualcosa che può avere risvolti ignoti, non previsti. Nessuno dei colleghi con cui sono in contatto, intraprendenti con la ICT, ha la verità in tasca, ma non ce l’hanno nemmeno più i tradizionalisti, anche se rimpiangono i bel tempo che fu e si ostinano a perseguire modalità che nostri studenti non capiscono: rigidità, autorità e giudizio per tenerli buoni, zitti ad ascoltare, con la conoscenza che arriva solo audio ed è unidirezionale. Di questa indifferenza al cambiamento bisogna farsene una ragione ed andare avanti per la propria strada cercando di svolgere il lavoro al meglio e con maturata convinzione.
In uno dei tuoi post si legge che “si deve imparare ad imparare”. Cosa significa e qual è il consiglio che ti sentiresti di dare non solo ai docenti ma anche ai genitori che sono compagni di viaggio degli alunni?
La curiosità e l’interesse personale giocano un ruolo fondamentale, ma bisogna prendere coscienza che qualsiasi professione oggi richiede un continuo aggiornamento. Questo in passato avveniva tramite i canali classici comunicativi come i media, l’università, i corsi professionali mentre adesso avviene sempre più spesso in Rete, dove si sono trasferite le risorse della conoscenza anche per vie informali, dove s’intuiscono cose per serendipity, una modalità che era riservata alle équipe di ricerca. Un esempio sono le Open University in cui ci sono corsi gratuiti per ogni argomento, ma soprattutto la rete di persone che condivide gli interessi in modalità connettiva.
Ecco, ultimamente sento spesso colleghi che si lamentano perché non ci sono piani di formazione adeguati. A queste persone vorrei dire di iniziare a bazzicare i social network o i forum group e cercare persone con le quali scambiare opinioni ed esperienze. Oggi s’impara così, anche nel caos, mettendosi in gioco con la passione, la voglia di provare (e di sbagliare anche) per poi riprovare. Il gioco è per definizione autogratificante; imparare non comporta necessariamente sacrificio. Ai genitori vorrei consigliare di non accanirsi con la pretesa che i figli studino come facevano loro. Con questo non voglio dire che non ci debbano essere momenti di riflessione personale ed anche di metariflessione, ma i tempi sono cambiati. Se c’è il bisogno di sentirsi connessi, ci sarà bene una ragione anche di natura sociale; i ragazzi sanno che si impara meglio stando insieme.
A rimarcare quanto sostenuto da Emanuela, che la scuola la vive da dentro, riportiamo la frase di Miguel Ángel Escotet, inserita nell’introduzione: “rinunciare all’uso della tecnologia nel sistema educativo avrebbe senso in una società che rinuncia completamente alla tecnologia in ogni altro settore, dato che l’educazione è un mezzo per preparare l’inserimento nella vita sociale”.

Photos of elementary students using iPads at school to do amazing projects. Photo taken by Lexie Flickinger.
Vero, vero , vero: magari lo si facesse…. Condivido con piacere anche sulla nostra pagina http://www.facebook.com/cittadeibimbi.it, twitter e google plus…. Complimenti per la bella e utile segnalazione!
Per dire come siam messi, qui nel terzo mondo europeo (perché l’italia, rispetto agli altri paesi europei questo è) ti porto l’esempio della mia esperienza di madre di ragazzina “diversamente abile” (ha la sindrome di Asperger).
– Libri di testo pesantissimi, rifiuto da parte del liceo di prendere in considerazione la versione ebook esistente
– libri perfettamente identici a quelli prestatemi, ma di diversa edizione (uniche differenze: un paio di pagine con note differenti) che sono stata OBBLIGATA a ricomprare da insegnante ottusa e petulante (“finchè non ha il libro di testo giusto non posso interrogarla”…)
– rifiuto posto alla mia richiesta di uso del tablet per prendere appunti alle lezioni (inutili assicurarli che senza la SIM dentro la ragazzina non poteva collegarsi ad internet per “imbrogliare” durante i compiti, cosa fra l’altro di cui non ha assolutamente bisogno, o per “giocare” su FB)
Poi mi chiedono perché sto scappando via a gambe levate… 😀
Tiziana, dispiace constatare che esistano situazioni come la tua (che purtroppo non sarà l’unica). E’ per questo che spesso torniamo sull’argomento scuola perché non sono sufficienti solo gli investimenti in tablet e lavagne digitali per una scuola digitale. Serve apertura mentale di chi i tablet e le lavagne le devono considerare parte della “classe”. L’esperienza di Emanuela, che è insegnante, speriamo possa essere d’esempio. Perché come dice lei c’è bisogno anche di un bel bagaglio di entusiasmo e voglia di portare innovazione in aula. Altrimenti le nuove tecnologie sono viste come un “limite”. O come un “imbroglio”. Sarebbe bello non scappare a gambe levate ma riuscire a fare fronte comune per cambiare quel che si può cambiare.
Sonia non è che scappo perché mi arrendo, scappo perché, oggettivamente qui in Italia non c’è la prospettiva di una vita normale per mia figlia.
La porto a vivere in un paese dove chi si permette di discriminare o peggio di trascinare per un braccio lungo tutto un cortile una ragazzina (allora aveva 10 anni appena) come minimo viene rimosso dall’incarico, se non perseguito penalmente. Quanto al fronte comune… le altre mamme se ne sono fregate ampiamente, il problema è mio, i loro figli sono “normali”. Nessuno ha mosso una paglia, indifferenza totale.
Le mie battaglie le ho fatte, perdendo su ogni fronte. Visto che vincere è impossibile, porto Chiara in un paese civile, dove non si insabbiano le denunce, dove le leggi si rispettano, ed ancor prima delle leggi si rispettano le persone.
Non è la crisi economica il male dell’Italia, ma la perdita di eticità, ormai diffusa ovunque.
Certo ci sono ancora le anime belle, ma sfortunatamente, mia figlia sul suo cammino ne ha incontrate veramente poche.
Dire ci dispiace è troppo facile. Capisco e comprendo. Ho fatto volontariato per anni. Conosco il senso d’impotenza di fronte alla mancanza di sensibilità. Anche se poi sono convinta che, come leggevo tempo fa sul libro “Zigulì. La mia vita dolce e amara con un figlio disabile”, nessuno può comprendere fino in fondo chi questa esperienza la vive così da vicino. Sono sicura che la tua scelta sarà quella giusta. Soprattutto per la tua bambina speciale
suxsonica… grazie della comprensione 🙂
Hai centrato in pieno il busillis, infatti la solidarietà mi è sempre venuta da persone che in famiglia o nel giro di amicizie hanno casi di disabilità. Per gli altri è difficile, se non impossibile capire. Non lo fanno per cattiveria, spesso sono in buonissima fede e stentano a credere che nel 2013 si debba lottare con le unghie e coi denti per vedersi riconosciuti dei diritti basilari, come quello all’istruzione.
La mia decisione di espatriare non la prendo a cuor leggero ed anzi ho anche una bella fifa blu addosso, perché è un passo comunque rischioso soprattutto per me che sono quasi alla soglia dei 50 tondi, ma sono certa che per la mia dolcissima aspie il Cananda sarà un posto migliore dove vivere.