
Da tempo alla parola scuola si associa l’etichetta 2.0 che, oltre a fare molto fashion, vuole dimostrare che la scuola tiene il passo, sa aggiornarsi e non fa mondo a sé. E in linea con l’etichetta 2.0 continuiamo a caricare gli zaini dei ragazzi con mattoni di carta, riceviamo a casa le solite comunicazioni dattiloscritte da riempire a penna, siamo costretti a telefonare o passare di persona in segreteria se vogliamo un’informazione (l’e-mail è strumento in genere non pervenuto o se pervenuto non consultato).
A inizio anno scolastico non è comunque mancato il solito decreto legge che dovrebbe digitalizzare tutto, scuola compresa. Così si parla di iscrizioni, pagelle, comunicazioni con alunni e famiglie, registri digitali a decorrere da questo anno scolastico. E per supportare l’annuncio compare la frase ad effetto “un tablet per ogni studente”. Senza pensare che, come afferma Dianora Bardi, “i docenti non sono formati per fare una didattica che si avvicini ai ragazzi, perché imparare ad usare un iPad non è difficile, ma cambiare il modo di fare didattica sì”. Ma una vera scuola 2.0, che prescinde dagli annunci clamorosi, fatta di persone di buona volontà che si mettono in rete e cambiano realmente la didattica e il modo di fare scuola, esiste. Abbiamo incontrato Elisabetta Nanni, una che la scuola digitale non la racconta soltanto.
In Umbria due anni fa hai iniziato a parlare di classi 2.0. Qual’è stato il percorso fatto? Quali gli obiettivi prefissati che sono stati raggiunti? E quali invece le cose che pensavi di riuscire a fare e che sono rimaste solo su un editor di testo?
Il percorso di classi 2.0 è nato con l’obiettivo di modificare l’ambiente di apprendimento con l’inserimento in classe delle ICT, ma anche con quello di documentare questo particolare cambiamento attraverso azioni di riflessione/metacognizione sui processi in corso. Una concezione diversa, quindi, della classe che non si sposta più nel laboratorio, visto come spazio indipendente e “speciale” ma è lo stesso laboratorio che si trasforma in metodo e strategia. Ogni classe 2.0 ha attivato un progetto didattico seguito sia dalla prof.ssa Floriana Falcinelli della facoltà di Scienze della Formazione di Perugia che da me. Quando si progetta un ambiente che sia significativo per l’apprendimento, le tecnologie diventano solo una delle componenti perchè diventano importanti le attività in cui vengono integrate, il modo con cui si realizzano, le interazioni sociali che si sviluppano. E’ per questo motivo che l’integrazione nella pratica scolastica di uno strumento tecnologico richiede modifiche sia organizzative che gestionali del lavoro in aula. Il mio compito è stato proprio quello di supportare i docenti di queste classi “speciali” nel loro percorso, partendo dai loro dubbi, dalle loro perplessità per cercare insieme la soluzione più idonea ai loro problemi. E quale miglior strumento di un blog per condividere i loro percorsi? Dopo esserci incontrati a Rimini al Convegno nazionale del MIUR, è nata l’esigenza di fare “gruppo” anche in Rete e i docenti hanno sperimentato su loro stessi gli strumenti che poi hanno utilizzato con gli alunni in classe come la Timeline di Dipity o il geotagging imparando ad “abitare” la Rete e riuscire, così, ad educare i loro ragazzi a una concreta e reale cittadinanza digitale. Certamente avrei voluto monitorare il progetto fino alla fine per avere il quadro definitivo del “sistema” e riuscire a sperimentare insieme a questi splendidi docenti e dirigenti che mi hanno seguita nell’avventura, tanti altri strumenti soprattutto open per facilitare la costruzione di conoscenza condivisa.
Per plasmare un insegnante e mettergli il marchio 2.0 di cosa c’è bisogno?
L’insegnante prima di tutto non deve temere il cambiamento e deve essere in grado di rimettersi in discussione cercando di capire che il suo ruolo può essere diverso. Non deve rincorrere le tecnologie per essere un prof che segue la moda del momento, ma essere consapevole del valore aggiunto che le stesse possano portare nel suo lavoro. E soprattutto deve avere quella che ho definito più volte una mente 2.0, intelligenza connettiva e collettiva, dinamica, capace di usare la cassetta degli attrezzi 2.0 ma che sia soprattutto in grado di “embeddare” in modo creativo tutte le risorse a sua disposizione per amplificare l’azione didattica.
E per fare un sistema scolastico 2.0 invece?
Un sistema scolastico 2.0 è quello in cui tutti i docenti sono in grado di condividere il progetto di innovazione nato da forti esigenze e assolutamente non imposto dall’alto e, prima di tutto, che si sappia dotare di un’infrastruttura solida e non fragile come un castello di carta affinchè possa sostenere al meglio i cambiamenti.
Quando si parla di scuola digitale vengono subito in mente le lavagne digitali, portate in aula e spesso accatastate a prendere polvere vicino alla lavagna d’ardesia. Cosa fa accendere la lavagna digitale? Qual’è il valore aggiunto che può portare nella didattica?
La Lim rappresenta esclusivamente uno strumento e come tale deve essere utilizzata, mettendo sempre al centro l’azione didattica dell’insegnante. Dovrebbe diventare in classe “normale e trasparente” ma molte volte, invece, enfatizza ed amplifica una lezione esclusivamente frontale, rendendo la lavagna tradizionale di ardesia più interattiva di quella digitale. Non è uno schermo ma uno spazio interattivo in cui la parola chiave d’obbligo è “condivisione”. Nella Regione dell’Andalusia in Spagna, ad esempio, sono arrivati prima i netbook in classe e successivamente la LIM. In Italia è successo esattamente il processo opposto e solo ora si sente l’esigenza di un tablet per ogni alunno. Più che una LIM fissa alla parete, io vedrei in classe tavoli interattivi dove ognuno condivide le proprie competenze e le conoscenze sia formali che informali.
Per una scuola 2.0 si possono avere genitori 0.0? Come si coinvolgono e si aiutano le famiglie? Basta la vecchia circolare scritta a macchina ciclostilata che informa “Siamo partiti col progetto scuola 2.0″?
La vecchia circolare che “comunica” di aver iniziato un nuovo percorso non è certamente sufficiente. E’ necessario e doveroso coinvolgere i genitori e lasciare che esprimano i propri dubbi in proposito. Non è facile vedere a casa il figlio che, invece di usare libri e quaderni, studia con un notebook. Favorire la crescita di una mente 2.0 dipende anche dal coinvolgimento dell’intera comunità educante. In alcune scuole ho attivato una formazione per i genitori sull’uso dei social network, come Facebook, per condividere e abitare insieme ai loro figli con consapevolezza il “terzo luogo” .
Ti intervistiamo in un momento particolare. Hai appena lasciato l’Umbria e il tuo progetto. Quale “eredità” speri possa raccogliere qualche volenteroso che intenda riprendere il cammino?
Mi auguro prima di tutto che ci siano i “volenterosi” e che le scuole non vengano abbandonate a loro stesse. Voglio sottolineare, però, che nelle scuole umbre che ho seguito ci sono docenti molto preparati, in grado ormai di camminare da soli con le proprie gambe senza alcun difficoltà. Li invito a continuare la loro strada senza timore verso l’innovazione con l’obiettivo di “contaminare” altre classi e insegnanti.
Una donna che prova a portare innovazione in pubblica Amministrazione. Un compito piuttosto arduo, per usare un eufemismo. Qual’è il carburante che ti fa andare avanti con caparbietà?
Il mio più grande difetto è quello di non essere diplomatica e di dire sempre quello che penso, con autenticità. Sicuramente questo è un limite se lo osserviamo con le lenti burocratiche e amministrative. La mia caparbietà è sostenuta dalla passione per il lavoro che svolgo e dal fatto che credo fermamente in tutto quello che faccio. Forse anche …too much!
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