

La ACM CHI Conference on Human Factors in Computing Systems è la più importante conferenza nell’ambito dell’Interazione Uomo-Macchina.
Ho avuto il piacere di partecipare all’edizione 2011 della più importante conferenza nell’ambito dell’Interazione Uomo-Macchina, la ACM CHI Conference on Human Factors in Computing Systems. La CHI2011 si è tenuta lo scorso maggio a Vancouver e oltre alle sessioni principali, la conferenza ha offerto anche una giornata dedicata a diversi workshop.
In particolare io ho preso parte al workshop “Feminism and Interaction Design”, organizzato da Shaowen Bardzell dell’Università dell’Indiana durante il quale sono stati presentati 13 articoli scientifici riguardanti la tematica del femminismo e dell’interaction design, cioè la progettazione dell’interazione.
Le premesse sulle quali si è basato tutto il lavoro svolto durante il workshop, sono quelle messe in luce dalla stessa Shaowen Bardzell nell’articolo scientifico che ha presentato all’edizione 2010 della Conferenza CHI, dal titolo “Feminist HCI: Taking Stock and Outlining an Agenda for Design”.
Il lavoro di ricerca di Shaowen trova le sue radici in uno dei vari studi esistenti sul femminismo che lo vede come fenomeno che ha attraversato ed è felicemente sopravvissuto a tre fasi principali, dette ondate. La prima ha toccato gli anni dal 1830 al 1920 circa ed è stata caratterizzata dai movimenti per l’uguaglianza delle donne nei diritti fondamentali, quali ad esempio il diritto al voto e alla partecipazione nella vita dei Paesi democratici. La seconda ondata femminista è quella forse più nota che ha avuto luogo tra gli anni 60 e 80 del Novecento. L’emancipazione della donna e la caduta della struttura patriarcale dei nuclei famigliari hanno portato grande libertà di espressione e di crescita nella popolazione femminile dell’epoca ma non solo. La terza ondata invece è quella iniziata all’inizio del 1990 e che continua tutt’ora.
Ed è proprio alla luce di questa terza ondata che il femminismo ha fatto capolino in uno degli ambiti di ricerca più attivi degli ultimi anni, cioè l’interaction design. Nell’articolo del 2010 Shaowen presentava le sei qualità che dovrebbero caratterizzare l’interaction design femminista:
- Pluralismo: progettare artefatti software in grado di soddisfare più persone e più punti di vista differenti possibili.
- Partecipazione: adottare tecniche di progettazione partecipativa in cui l’utente viene coinvolto nelle scelte implementative in modo da sfruttare le sue competenze e per studiare le sue aspettative e i suoi bisogni.
- Patrocinio: non avallare la pratica comune dei designer di sostituirsi agli utenti durante la progettazione, ma spingere verso una maggiore considerazione dei bisogni degli utenti.
- Ecologia: considerare gli effetti che le scelte fatte in fase di progettazione avranno sul contesto nel quale il prodotto verrà usato e su tutti gli utenti coinvolti nel suo uso.
- Personificazione: promuovere uno stile di progettazione che tenta in considerazione aspetti in comune e differenze tra i sessi, identità sessuale, sessualità, piacere, desiderio ed emozioni.
- Rivelazione di se stessi: l’utente deve essere in grado di modificare il profilo che il prodotto software costruisce su di lei, in base a come esso viene utilizzato. Pensate ad esempio alle raccomandazioni di Amazon fatte in base ai vostri acquisti più recenti: se avete acquistato dei libri che riguardano la sessualità umana, non è detto che vogliate trovare sempre raccomandazioni in quel campo, soprattutto se utilizzate quello stesso account sul posto di lavoro.
Con queste premesse il workshop ha permesso al gruppo dei partecipanti di confrontarsi sulle opportunità che la tecnologia offre per l’adozione di tecniche di progettazione che tengano in considerazione concetti, valori e teorie femministe e di riflettere sulle implicazioni che la pratica di un design femminista può avere sia dal punto di vista teorico che pratico e su come identificare gli ostacoli che possono minare la ricerca in questo ambito.
Ma non ci si è fermati solo a considerare il ruolo che ha la donna nella società digitale. Al contrario, un aspetto importante nell’ambito del feminist HCI è stato messo in luce da Gopinaath Kannabiran dell’Università dell’Indiana riguarda l’esistenza di orientamenti sessuali che vanno al di là della semplice e semplicistica divisione tra maschi e femmine. Questo punto di vista infatti è in linea con quella che si può definire una nuova stagione del femminismo che incarna a pieno le parole di una delle icone del movimento, Simone de Beauvoir: “Donna non si nasce, lo si diventa”. In questa fase, infatti, il genere sessuale non è un dato di fatto, è qualcosa che l’individuo ha diritto di costruirsi durante la sua esistenza nella società e al rapporto con le istituzioni e i media. In particolare Gopinaath ha analizzato Facebook e il suo approccio alla creazione dei profili degli utenti sulla base dell’indicazione del sesso e dei gusti sessuali.
La presentazione del lavoro di Sarah Douglas dell’Università dell’Oregon, invece, ha portato alla luce i risultati ottenuti da uno studio effettuato sullo sviluppo di un videogame creato appositamente per ragazze, Charm Girls Club. Come ha illustrato Sarah, il videogioco presenta dei contenuti altamente antifemministi che invece di aiutare le giovani donne a sviluppare una visione di loro stesse e della loro identità nel mondo, usano sterili stereotipi e rappresentazioni distorte della loro vita quotidiana. Il mercato dei video giochi sembra non essere particolarmente fortunato in quanto ad utenza femminile: le donne infatti non sempre apprezzano le tematiche affrontate dai videogiochi e le dinamiche di interazione tra i giocatori. D’altra parte, come Sarah ha saputo descrivere bene nel suo lavoro, creare dei videogiochi adatti ad un pubblico femminile non è un’operazione tanto banale.
Questi sono solo due degli articoli che sono stati presentati al workshop ma possono già essere molto indicativi dell’utilità che può avere un confronto su queste tematiche e la creazione di gruppi di interesse intorno ad esse.
Il mio contributo a questo workshop è consistito nella presentazione di una parte della mia tesi di dottorato di ricerca che ho discusso nel marzo scorso all’Università degli Studi di Milano. Il titolo del mio articolo è “Software localization to gender and culture: fostering female participation and creativity in the Web”. Parte della mia attività di ricerca è infatti orientata allo studio di metodi e tecniche per consentire la progettazione e lo sviluppo di sistemi interattivi che si adattino alla cultura dell’utente, intesa non solo come lingua madre e come paese di provenienza, ma anche come background educativo, il sesso dell’utente e di conseguenza il ruolo che ricopre nella società in cui vive e lavora.
L’adattamento di un software ad un profilo così personale, profondo e per certi versi “intimo” dell’utente, le (gli) permetterebbe di esprimersi più liberamente e in modo creativo nel Web e nella società digitale, senza incontrare ostacoli e discriminazioni. Questo workshop ha confermato quello che dovrebbe essere ormai chiaro in ogni società civile, digitale e non, e cioè che la diversità, prima di essere considerata un problema, dovrebbe essere vista come una ricchezza e come tale dovrebbe essere tutelata.
A voi è mai capitato di sentirvi disorientate o anche discriminate durante l’uso di un applicazione software o durante la navigazione dei contenuti di un sito Web?
Se sì, mi piacerebbe molto che mi raccontaste la vostra esperienza!
Barbara
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