
La mamma web 2.0 che è in me si risveglia e scarica subito un’applicazione per iPhone (immagino che ci sarà una app equivalente per ogni smart phone).
Si chiama “English for kids” e ha una serie di lezioni, tra cui una sul corpo umano. Il programmino mostra due foto, per esempio una mano e un occhio, e pronuncia il nome in inglese della foto che va toccata: “hand” (mano). Se sbagli e metti il dito sull’occhio il telefonino fa quel beep fastidioso per sanzionare l’errore e appare in rosso: “eye” (occhio). Se clicchi l’altra icona ottieni invece un soddisfacente ingrandimento. Subito dopo propone altri test, magari anche ripetitivi per verificare se hai veramente imparato o se hai solo indovinato. Alla fine ottieni la percentuale di risposte esatte. Se vuoi migliorare il tuo livello, c’è il tasto “riprova” e così ricominci.
Semplice, ripetitivo, associato ad una pronuncia perfetta, divertente, stimolante, con un feedback immediato.
I bambini sono attratti dai videogiochi perché li stimolano a prendere decisioni, a rischiare in maniera prudente, a elaborare piccole strategie. E il risultato è immediato, se sbagliano rimediano subito, se vanno bene sono premiati dal punteggio o dal passaggio di livello. L’incentivo a migliorarsi sempre è fortissimo e ogni volta le scelte saranno più complesse, le sequenze più elaborate, i movimenti più veloci. Non si tratta di trasformare le materie di studio in videogame, semmai il contrario.
Mi spiego meglio. I nostri bambini sono multitasking, abituati alla multimedialità, all’interattività, alla collaborazione. Generalmente amano le sfide e vogliono perfezionarsi nel disegno o nel calcetto. Sono in grado di ricordarsi i nomi di cento pokemon e dei loro attacchi, eppure sono suoni quasi impronunciabili. Li memorizzano perché li associano ai duelli e al divertimento. Insomma i bambini si impegnano, se ne vale la pena. E qui torniamo alla scuola.
L’inglese cosa rappresenta per un bambino che ha capito a malapena che ci sono persone che vengono da altri paesi e parlano lingue incomprensibili? Una materia da studiare, punto. Non si può dire loro che è fondamentale, che potranno relazionarsi con persone in tutto il mondo, chattare con i famosi aborigeni australiani. In prima elementare l’Australia è un concetto astratto quanto il monismo panteistico di Hegel. D’altra parte è fondamentale che apprendano le lingue sin da piccoli con la stessa facilità con cui imparano a smarcare l’avversario e tirare in porta nell’attimo esatto in cui il portiere è concentrato su un’altra possibile traiettoria. E allora forse imparare giocando e soprattutto trovare un modo per “fare esperienza” di quello che si è imparato può essere una buona idea.
PS. Tornando a mio figlio, quando, dopo 10 minuti che armeggiava con quel gioco gli ho chiesto cosa volesse dire “head”, “eye” o “arm” lui non mi ha mai detto “testa”, “occhio” o “braccio”. Me li ha indicati come nelle foto a cui lui aveva imparato ad associare quel suono. L’ho trovato un dribbling meraviglioso.
Maila Paone
Maila paone gestisce la pagina Facebook di “Genitori di nativi digitali” e ha scritto un libro “Aiuto, mio figlio deve fare i compiti!” sottotitolo “Non mi seccare, mamma. Sono connesso!”
Questo è un argomento che mi sta molto a cuore e dirò la mia:
La tecnologia al servizio dell’insegnamento delle lingue, soprattutto quando il discente è un bambino, va usata con cautela e come mezzo aggiuntivo e non potrà mai sostituire l’interazione umana, che è da dove scaturisce il bisogno di comunicare e soprattutto la retroattività. Non sono contraria all’uso di dispositivi come questo, e anzi ogni tanto li uso anche io con i miei figli e a lezione, ma vorrei sottolineare l’importanza dell’interazione umana e soprattutto dell’imitazione e della ripetizione. Solo così si impara per davvero una lingua, quando c’è una necessità *reale* di comunicazione. Questo è uno dei motivi del fallimento dell’insegnamento/apprendimento delle lingue nel sistema scolastico attuale.
Ricordarsi delle parole a breve termine è un esercizio di memoria e anche un virtuosismo fonetico se vogliamo, ma non ha nulla a che fare con l’interiorizzazione di una lingua, che è uno strumento di comunicazione e anche un filtro per l’organizzazione degli stimoli (tra cui anche le emozioni).
E dunque a mio avviso sì all’uso della tecnologia e sfruttiamo le innumerevoli opportunità che ci offre, ma sempre con un ruolo di “assistenza” e molto secondario.
Questo non lo dico riferito ovviamente alla tua esperienza personale, che non conosco e mai mi permetterei, ma in base alla mia esperienza come docente di L2. Ho trovato e trovo quotidianamente tanti genitori che si lamentano perché nonostante facciano “vedere tutti i giorni il cartone in [lingua straniera] oppure il gioco al pc” il loro figlio non *spiccica* una parola di L2.
Saluti e complimenti per questo sito.