
L’esperienza di gioco nasce anche e soprattutto a partire dall’interfaccia: l’oggetto fisico e le scelte visive possono trascinarci in quel mondo ludico al di là – ma soprattutto al di qua – dello schermo.
Pur essendo grande giocatrice, ho sempre considerato i controller come scomodi e inutilmente complicati, spesso una barriera all’esperienza di gioco a cui aspiravo. E poi la forma stessa del pad non può andare bene per tutti: basta avere le mani un po’ più piccole, o le dita un po’ più lunghe, del giocatore-tipo per cui è stato pensato il controller, per ritrovarsi ad assumere posizioni scomode e innaturali.
Per fortuna oggi, dopo quindici anni di dominio incontrastato del joypad, ci troviamo di fronte anche ad altri tipi di controller e di interfacce, in particolare quelle basate sul movimento come il Wiimote di Nintendo e il Move di Sony. Se il controller della console Wii ha la forma rassicurante di un telecomando, quello di PlayStation si ispira al microfono, una scelta significativa per Sony, colosso della musica prima ancora che dei videogiochi. Microsoft ha voluto fare un passo in avanti ed eliminare radicalmente l’oggetto fisico rilevando le azioni del corpo con Kinect, una telecamera in grado di rilevare la velocità e profondità dei movimenti.
Ma qual è il vero significato di queste interfacce? Come cambiano la percezione e l’esperienza di gioco? Lo racconta con un occhio analitico Agata Meneghelli, assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna, che ha recentemente pubblicato il libro “Il risveglio dei sensi” (Unicopli, 2011). Con un approccio semiotico, viene sviscerato il significato dell’esperienza ludica. Quando si analizza un gioco, non basta limitarsi a ciò che accade nel mondo digitale, ma bisogna avere uno “sguardo strabico” che tiene contemporaneamente conto di ciò che succede al di qua dello schermo, ciò che possiamo considerare come la nostra performance di gioco.

Agata Meneghelli
Questo accade con qualsiasi titolo, ma ci sono giochi che hanno puntato tutto proprio sull’atto performativo che avviene nel mondo sensibile. Basti pensare alla serie Guitar Hero che, grazie al controller a forma di chitarra, simula la performance dei musicisti, centrando il gioco sull’esperienza fisica. Lo stesso accade grazie a Wiimote e Move. I controller diventano così le tue “protesi”.
Per scoprire qualcosa di più del suo settore di studi, abbiamo posto alcune domande ad Agata Meneghelli.
Raccontaci brevemente il tuo percorso. Come sei arrivata ad analizzare i videogiochi da un punto di vista semiotico?
Il mio percorso di ricerca, fin dalla stesura della tesi di laurea, nasce dall’incontro di due passioni: la passione per la semiotica, che ho maturato negli anni dell’università, e la passione per i videogiochi, che è nata in giovane età grazie al Commodore 64 di mio fratello maggiore. Il genere videoludico che mi ha “segnato” di più è sicuramente quello dei god game (simulazioni di mondi) e degli Rts (strategici in tempo reale). È giocando a SimCity che mi è balenata l’idea di applicare la semiotica ai videogiochi, e sono stati i god game i primi giochi che ho cercato di “smontare” con il fine di comprenderne il linguaggio e di mettere in luce il modo in cui costruiscono esperienze dense di significato.
Il tuo libro si inserisce nel filone dei game studies, disciplina ancora poco diffusa nel nostro paese. Secondo te, per quali motivi l’Italia non ha ancora una tradizione accademica dedicata ai game studies? Pensi che le cose possano cambiare nel breve periodo?
Sono anni che spero che i game studies acquistino legittimità anche in Italia ma mi sembra che, con una certa miopia, si faccia ancora fatica a considerare il videogioco come un oggetto degno di essere studiato in modo “scientifico”. Non è facile fare previsioni su come si evolveranno le cose nel prossimo futuro. Devo ammettere comunque che negli ultimi cinque anni il numero di studiosi e accademici che si occupano di videogiochi in Italia è cresciuto in modo significativo, così come i convegni e i seminari dedicati al mondo dei videogiochi (sono da poco tornata da una giornata di studi sui fashion game).
Il problema è che questi studiosi sono dispersi in diversi dipartimenti e in diverse zone geografiche e si confrontano solo occasionalmente. Il primo passo per uno sviluppo più maturo dei game studies anche in Italia sarebbe a mio avviso quello di creare un network stabile e continuativo tra persone (accademici ma anche professionisti) che fanno dei videogiochi il loro principale oggetto di studio (o di lavoro). A differenza di altri ambiti disciplinari, che si caratterizzano per un particolare approccio o sguardo, i game studies trovano la loro uniformità nell’oggetto di studio: il gioco, in tutte le sue forme (digitali e non). Per questo penso che i game studies abbiano, per natura, una vocazione interdisciplinare, che rappresenta anche uno dei loro punti di forza.
Le nuove interfacce e i sistemi di controllo hanno avvicinato ai videogiochi anche persone che non hanno mai voluto prendere in mano il classico joypad. Secondo te è possibile che stia per tramontare l’era del giocatore-stereotipo “straight male player”?
Penso che l’era dello “straight male player” sia già in via di estinzione,il problema è che si parla ancora troppo poco della presenza femminile nel mondo videoludico… a partire dalle giocatrici stesse che spesso si vergognano ad ammettere di videogiocare e di divertirsi a farlo. In ogni caso, non c’è dubbio che la progettazione di controller di gioco più “friendly” faciliti l’ingresso di nuovi tipi di utenti, abbattendo una barriera tecnologica che ha per lungo tempo contribuito a tenere lontano molte donne dal mondo dei videogiochi.
Un’ultima domanda: hai mai pensato alla possibilità di lavorare nell’industria entrando a far parte della produzione?
Non solo sarei disposta, ma sarei addirittura entusiasta se potessi lavorare nell’ambito della produzione! Credo fermamente che il dialogo tra chi studia e analizza i videogiochi e chi li produce possa essere molto prolifico per entrambi.
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